Sulla riforma costituzionale occorre cautela

Luigi Santini

Negli ultimi due decenni la “grande riforma” della Costituzione è stata al centro delle intenzioni (e delle promesse) di quasi tutti i governi, ma i risultati attesi non si sono avuti. Ci provò D’alema nel 1998 con la Commissione bicamerale, ma senza esito alcuno. Analoga sorte ebbero, nel 2003, le proposte dei quattro “saggi” di Lorenzago durante il governo Berlusconi. I due tentativi successivi – nel terzo governo Berlusconi e in quello Renzi – varcarono la soglia dell’approvazione parlamentare. Ma la riforma, essendo stata approvata a maggioranza semplice, dovette essere sottoposta a referendum e, in entrambi i casi, fu bocciata dagli elettori. L’unica ad aver avuto seguito fu quella voluta da Bassanini che, con la legge costituzionale 3 del 2001 ha modificato profondamente il Titolo V della Costituzione. Esito che, nel tempo, ha mostrato numerose incongruenze. A partire dalle competenze in materia di sanità pubblica.

Il governo Meloni – facendo seguito ad un impegno preso in campagna elettorale con i cittadini – ripropone con forza il tema della modifica della Costituzione. L’operazione di presenta ardua per diversi motivi. In primo luogo per un problema di metodo. La premier ha convocato i partiti di opposizione a un tavolo di confronto ma, nello stesso tempo, ha avvertito che procederà anche senza il loro appoggio. Quindi, scegliendo la strada dell’approvazione della riforma della Costituzione con i soli voti della maggioranza. Si può ben capire quanto tale scelta sia premessa di uno scontro istituzionale estremamente duro e non privo di incognite. Si può condividere l’esigenza di maggiore stabilità dei governi, ma non si deve stravolgere il delicato equilibrio dei poteri costituzionali.

Ai problemi di metodo si aggiungono quelli di merito. Al riguardo sembra pertinente un’osservazione. Il Paese è in un momento assai difficile, nel quale si incrociano questioni interne e problemi di natura internazionale insistere sulla riforma Costituzionale può trasformarsi in un boomerang. Il modo con il quale la premier ha messo in agenda il progetto di cambiamento della Carta costituzionale dà l’impressione che il governo stia mettendo troppa carne a fuoco, rischiando in tal modo di trovarsi nell’impossibilità di raggiungere gli obiettivi che si prefissa. Mentre Meloni avvia il confronto con i partiti di opposizione, viaggia – su un binario parallelo – il disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata. Non ci vuol molto a capire che i due convogli corrono il rischio di collisione, oppure di finire su un binario morto. Il disegno governativo di autonomia differenziata, come è stato elaborato, non farà che acuire le diseguagliare già esistenti. In questo ambito il problema della sanità è cruciale, quasi drammatico. Nella nostra Regione le strutture di pronto soccorso sono ingolfati dalla carenze di strutture territoriali di primo intervento, le liste di attesa per analisi e cure sono di lentezza inaudita. Ma, fenomeno ancor più grave, si moltiplica il numero dei medici che lasciano il servizio pubblico per dedicarsi alla professione privata, molto più remunerativa. Di fronte a tale sfacelo occorre una politica di riequilibrio, non di maggiore squilibrio tra Nord e Sud del Paese. In politica la fretta si rivela quasi sempre cattiva consigliera. Ancor più ciò vale allorquando si decide di mettere mano al ridisegno della legge fondamentale dell’ordinamento. Nella situazione attuale nel nostro Paese vige un sistema elettorale che andrebbe rivisto prima ancora di avventurarsi nel terreno della modifica della Costituzione, oppure inserendo il cambiamento della legge elettorale nel disegno di riforma istituzionale. Prima ancora di avviare il confronto con l’opposizione, la premier ha dichiarato, senza mezzi termini, di voler procedere anche senza l’appoggio delle forze di opposizione. Posizione che può accontentare gli elettori di destra, ma non i cittadini nel loro insieme. In democrazia le riforme istituzionali devono essere condivise. Dire “io le faccio lo stesso” è una cattiva strada. La premier dovrebbe ricordare che per ben due volte le riforme a maggioranza semplice sono naufragate di fronte al voto referendario. Saggezza imporrebbe di non tirare la cor

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